LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"TU PUOI SAPERE,
SE NON RESISTI ALLA SOVVERSIONE SCIENTIFICA"
creata il 22 gennaio 2008, aggiornata il 29 giugno 2009

 

 

Tu vieni dalla "morale del sito" o da una pagina su qualche scienziato o non ho indovinato.

Sei in "Resistere alla scienza"

Il tuo discorso fa probabilmente eco a quello messo in esergo da Georg Groddeck al suo Libro dell'Es:

Was habe ich Armer mit Wissenschaft zu tun?

"Povero me, cosa c'entro io con la scienza?"

Qualunque sia la tua risposta, questa pagina ti riguarda.

Vuoi andare all'aggiornamento?

Ho in corso di stampa un libretto, originariamente intitolato proprio così,

Resistere alla scienza,

già uscito in tedesco da Turia und Kant (Wien 2009) con il titolo meno polemico ma più prolisso: Unendliche Subversion. Die wissenschaftlichen Ursprünge der Psychoanalyse und die psychoanalytischen Widerstände gegen die Wissenschaft. Lo riassumo in poche righe, come contributo alle future scienze dell'ignoranza. Si resiste alla scienza perché si vuole - politicamente conviene - rimanere ignoranti.

Si resiste alla scienza in quanto discorso senza fondamenti. Questo è un altro modo di dire che si resiste all’infinito. Perché? perché l’infinito, che è l'oggetto della scienza, è un oggetto non categorico (categorical). E' così grave? Sì, in quanto non categorico, l'infinito non può essere né concettualizzato in una qualche essenza né fondato su qualche espressione del logos, facilmente dominabile e trasmissibile. In fondo, l'infinito non si conosce mai del tutto. Perciò pongo l'infinito come discrimine tra scienza e conoscenza.

Esistono diverse forme di resistenza alla scienza, ma tutte hanno un tratto comune, che rimane costante attraverso la loro multiformità. Tutte, infatti, in qualche modo invocano il ricorso a un qualche tipo di fondamento (codici, categorie trascendentali, essenze, metafisica, dogmi ecc.). Non si tollera che la scienza - nel suo piccolo - sia libera da vincoli "fondamentali". Si tratta dei vincoli ontologici, su cui si fonda il potere politico, che per i soggetti diventano vincoli epistemici del pensiero - il cosiddetto principio d'autorità.

Non posso non ricordare qui la chiusa commovente del saggio del 1948 di Jean-Paul Sartre, La liberté cartésienne, a cura di Nestore Pirillo, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2007:

"L'unico fondamento dell'essere è la libertà".

La principale, più diffusa, socialmente meglio organizzata e principale ispiratrice di tutte le altre forme di resistenza alla scienza, implicite ed esplicite, è quella religiosa. Questo discorso riguarda anche gli atei, per i quali "dio è inconscio", come opportunamente osservava Lacan nel lontano 1964 (Cfr. J. Lacan, Le Séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse (1964), Seuil, Paris 1973, p. 58). La religione è la forma più arcaica di politica. Costituisce il primo soggetto collettivo, che correda con gli archetipi della vita psichica sotto forma di senso comune e prima scala di valori. Sin dall'origine dei tempi la religione sa che per meglio tenere insieme gli uomini bisogna sterilizzare ogni forma di libertà di pensiero. La democrazia, come espressione della libertà di pensiero, non è una forma di convivenza facilmente controllabile dal potere. Il vertice della democrazia - la scienza - come espressione del pensiero autonomo (Sartre) e non finalizzato a nessuno scopo riconosciuto come importante per la vita civile - che importanza può avere per regolare il consorzio umano il principio di relatività di Galilei-Einstein? - , è per il potere il nemico potenzialmente più temibile, perché mina dall'interno l'ordine costituito della civiltà, destabilizzandone i principi. Controprova? Il primo scienziato della storia fu processato dalla Curia Romana e non c’è molto altro da aggiungere.

La seconda, in ordine di diffusione, forma di resistenza alla scienza, trincerata dietro i bastioni dell'accademia, è la resistenza filosofica. Si chiama fenomenologia. Ne esistono due varianti: husserliana e heideggeriana. La prima è in eccesso rispetto a Cartesio, nel senso che raddoppia il dubbio cartesiano con il dubbio del dubbio. Si chiama epoché. Ne ho detto qualcosa nelle pagine su Husserl. La seconda è in difetto rispetto a Cartesio, di cui azzera il dubbio, riconoscendo la certezza assoluta che il soggetto ha di se stesso (sic) nella rappresentazione che esso si fa delle cose. Una prima analisi, da approfondire ulteriormente, è alla pagina su Heidegger. Le resistenze filosofiche alla scienza hanno in comune il passare sotto silenzio la funzione dell'oggetto, anche quando gridano "Alle cose stesse!"

La resistenza politica alla scienza si suddivide anch’essa in due varianti, una prevalentemente rivolta ai soggetti individuali - la medicina - l’altra ai soggetti collettivi - il diritto. Entrambe queste varianti sono non scientifiche e cripticamente religiose, in quanto prefigurano uno stato di natura "sano" o "giusto" - il cosiddetto disegno intelligente -, ma imputano al soggetto individuale una malattia potenziale (cfr. medicina preventiva) e al soggetto collettivo un disordine potenziale - oggi l'immigrazione clandestina -, esattamente come le religioni giudaico-cristiane imputano al soggetto una colpa originaria. Ne ho parlato in un saggio di prossima pubblicazione su "aut aut", intitolato Tuttobeneverosì.

Esiste addirittura una resistenza “scientifica” alla scienza. Si chiama positivismo e pretende di fondare una scienza deterministica, oggettiva e quantitativa. L’esempio paradigmatico fu proprio il sommo Einstein. L'astuzia della ragione, direbbe Hegel, fu che, opponendosi all'indeterminismo della meccanica quantistica - chi non ricorda il famoso motto "Dio non gioca a dadi"? - Einstein contribuì decisamente all'avanzamento della quantomeccanica, forse più dei suoi sostenitori. (Scoprì addirittura l'entanglement quantomeccanico in un famoso esperimento mentale, che a sua volta costituisce una sfida alla relatività). Regolarmente la resistenza dello scienziato alla scienza - un fenomeno facilmente riscontrabile da Newton ad Einstein, passando per Gödel - assume le forme della regressione. Gli uomini di scienza, forse perché stanchi di un lavoro insensato - non esiste senso ultimo nella scienza, avendo il soggetto della scienza fuorcluso dal proprio discorso ogni ricorso alla causa finale - regrediscono alla "scienza" prescientifica, ippocratico-aristotelica, questa sì sensata, perché fondata sul determinismo delle cause. Tra le cause viene poi prescelta la causa prima, dio in persona dalla bella barba bianca, e la vittoria della religione è cosa fatta.

Infine, esiste la resistenza psicanalitica alla scienza, testimoniata dalla pluralità di dottrine e di scuole psicanalitiche. E, come per la resistenza religiosa, non c'è molto da aggiungere. L'organizzazione chiesastica delle associazioni professionali degli psicanalisti è sotto gli occhi di tutti. Tutte hanno una dottrina e dei preti che la propinano agli adepti, affinché operino senza pensare secondo i dettami dell'ortodossia, applicandoli correttamente al caso clinico. (Logicamente parlando, si tratta dell'errore tipico di ogni ideologia: ridurre la validità alla correttezza, la semantica alla sintassi, i fatti agli artefatti ideologici). Su questo argomento mi sono già espresso alla pagina su Freud. Denuncio le responsabilità antiscientifiche del fondatore della psicanalisi nel saggio

Salviamo la lingua di Freud.

E con la psicanalisi, questa pratica tanto inutile quanto dispendiosa, scendiamo al lato pratico della resistenza alla scienza.

A livello psichiatrico, infatti, la resistenza alla scienza mostra la sua vera natura di difesa sociale. Da cosa e da quale nemico? Dalla follia. La resistenza alla scienza si traduce in resistenza al riconoscimento della follia e si esprime di conseguenza con i normali atti di normalizzazione della devianza: la fuorclusione della follia dal contesto sociale, si chiami manicomializzazione, marginalizzazione o rimpatrio filosofico.

Nelle mie rade puntate in ambito universitario o professionale per propagandare le mie idee ho incontrato sul tema più indifferenza che contestazione, cioè più resistenza passiva che attiva. Sembra che gli psichiatri ragionino così: “Non fosse mai che, immergendomi nell’intuizionismo, che costui annuncia come la buona novella scientifica, io possa capire qualcosa di più della metapsicologia, quindi della follia”. L’assunto di base della psichiatria è che la follia sia un fatto umanistico, in qualche modo degenere e fallimentare – una sofferenza dell'uomo, precisamente del piccolo uomo dentro l'uomo. (Il progetto Basaglia di apertura dei manicomi è un progetto ingenuo di alleviamento umanitario della sofferenza omuncolare.) La follia sarebbe un discorso sull’uomo che non coglie l’uomo nella sua interezza di soggetto eticamente responsabile, pensano i benpensanti (pensano?). In realtà la follia a poco a che fare con l'umanesimo. La follia è la degenerazione del discorso scientifico, in particolare del discorso sull’infinito, che nel folle non riesce ad assumere forme feconde – artistiche e o scientifiche – e rimane a livello immaginario di delirio, essenzialmente solipsistico. Il delirio è agli antipodi del discorso scientifico e in un certo senso si sviluppa in senso simmetrico a questo. Tanto il discorso scientifico è congetturale e dubitativo, tanto quello quello delirante è certo e incontrovertibile. Tanto il primo si realizza in una forma di legame sociale, che io chiamo epistemico, tanto il secondo si effonde in un oceano di monadi solitarie, ognuna identificata all'Uno ma reciprocamente slegate. Allora, resistendo alla scienza si prendono due piccioni con una fava. Si resiste alla scienza e alla follia, salvando la società dalla minaccia di disgregazione dell'Uno, che si chiama democrazia nella scienza e anarchia nella follia.

Quindi - pensa lo psichiatra - respingendo la follia nell’umanesimo sono sicuro di ignorarla meglio perché volutamente ne ignoro la radice scientifica. E questa volta lo psichiatra non sbaglia.

"La follia non si presta al gesto filosofico, non è una parola della filosofia" dice il filosofo. (Cfr. P.A. Rovatti, La follia, in poche parole, Bompiani, Milano 2000. p. 28). Infatti, la follia è una parola del discorso scientifico, ma mal articolata con il resto del corpo epistemico della scienza.

Detto in modo antropomorfo,

la follia è la sofferenza della scienza.

Perciò si resiste alla follia, non solo in psicanalisi, tanto quanto si resiste alla scienza.

Concludo con un particolare biografico. Giustamente un amico filosofo mi fa notare che nei miei scritti si parla poco di sofferenza. E' vero, l'empatia non è il mio forte. Tuttavia, dal mio archivio salta fuori un intervento di nove anni al Congresso di Livorno del 2001, dove parlo di sofferenza. Di chi? Non poteva essere altrimenti: del soggetto della scienza. L'intervento si intitola infatti

La doppia sofferenza del soggetto della scienza.

Parla del soffocamento intellettuale e morale della scienza. Intellettualmente si soffoca la scienza, riducendola a tecnologia, da tenere sotto controllo del potere politico, finalizzandola ai suoi interessi. Moralmente si soffoca la morale libertaria della scienza, riducendola a utilitarismo e pratica dei beni di consumo. A loro modo i folli si ribellano a questa doppia riduzione. Purtroppo la loro azione non ha peso politico.

*

Prendo il coraggio a due mani e mi tuffo in un discorso filosofico. In questo aggiornamento tento una possibile diagnosi filosofica della resistenza alla scienza, considerata nella sua espressione più pura: la resistenza alla scienza degli stessi scienziati. Ciò dovrebbe garantirmi dal rischio di cadere in qualche sterile polemica.

Tutti o quasi tutti conoscono il ritornello delle due culture, delle scienze della natura e delle scienze umane, recentemente ristrimpellato da Snow. Il ritornello si può sviluppare meglio. Qui accenno a una possibile variazione sul tema.

Le due culture effettivamente esistono e sono strutturalmente diverse. La più antica inizia con la metafisica aristotelica. La più giovane – di ben mille anni – nasce con la fisica galileiana. Ma la differenza non è di età, bensì di struttura. La prima è eziologica e si basa sullo scire per causas, la seconda non è eziologica e si basa sullo scire per theoremata. La prima è conoscenza del finito. La seconda è scienza dell’infinito. Una rifiuta la formalizzazione, l’altra la cerca.

Non sto sostenendo che le scienze umane sono aristoteliche e le galileiane naturali o che le prime sono finitarie mentre le seconde sono infinitarie o ancora che le prime non sono formalistiche mentre le seconde lo sono. Sto sostenendo che la radice della resistenza alla scienza, sia nel campo delle scienze umane sia nel campo delle scienze naturali, sta nell'attaccamento metafisico al principio di ragion sufficiente:

Niente è senza causa.

Tratteggio alcune conseguenze di questa opzione ideologica

Se niente è senza causa, allora non esistono fenomeni spontanei.

Se non esistono fenomeni spontanei, non esiste la fisica classica, che risulta amputata del suo assioma galileiano di base: l'esistenza di moti inerziali.

Se non esistono fenomeni spontanei, non esiste la fisica quantistica, non esiste il decadimento radioattivo, non esistono i fenomeni di non locali di entanglement.

Se non esistono fenomeni spontanei, non esistono mutazioni genetiche. Decadono le leggi di Mendel e si torna alla fissismo delle specie definite e determinate dalla tipologia linneana delle essenze.

Se non esistono fenomeni spontanei, non esiste speciazione e la formazione di nuove specie.

Se non esistono fenomeni spontanei, tutto il calcolo delle probabilità è un esercizio che si applica a vuoto.

Se non esistono fenomeni spontanei, tutta la scienza va in fumo. Cosa resta? Resta il conformismo, che assume la veste pseudoscientifica di cognitivismo. Restano la medicina e il diritto, le cui conoscenze eziologiche sono codificate in manuali autorizzati. Sin dai tempi delle prime università medievali, appunto di teologia, medicina e diritto (la filosofia era relegata nelle classi preparatorie), le università si propongono come roccaforte del principio di ragion sufficiente - necessario a mantenere il potere del padrone, difendendolo dalla destabilizzazione scientifica.

Ce n'è abbastanza per localizzare la resistenza alla scienza?

In proposito segnalo un dettaglio storico importante, che meriterebbe di essere ulteriormente sviluppato, in quanto evidenzia una carattere differenziale importante tra sapere antico e sapere moderno.

Agli albori della nuova fisica galileliana, insieme all'avvento di un genere letterario assolutamente nuovo - il romanzo, che non esisteva nell'antichità (fatta eccezione per l'Odissea) - comincia a essere formalizzato un nuovo calcolo: il calcolo delle probabilità. Prende le mosse con Huyghens e Bernoulli (gli stessi che svilupparono il calcolo infinitesimale di Newton e Leibniz) proprio quando con il discorso scientifico comincia a indebolirsi il principio di ragion sufficiente. Se non si conosce o se addirittura non esiste la causa di un evento, la conoscenza diventa incerta, gli esiti di un processo diventano variabili e ha senso conoscere la probabilità che ciascuno di essi ha di verificarsi. Il calcolo delle probabilità, non meno del dubbio cartesiano, è un modo di saperci fare con l'incertezza per trasformarla in certezza. Il calcolo delle probabilità procede in modo quantitativo attraverlo la valutazione di valori attesi medi, il dubbio cartesiano in modo qualitativo attraverso la logica epistemica del "se non so, allora saprò". Entrambi i modi erano ignoti agli antichi, per una ragione molto semplice.
Questo discorso, fatto a rovescio, getta luce sul principio di ragion sufficiente. Dimostra che era un principio apodittico, dotato della massima certezza - quella del ipse dixit. Non a caso Aristotele, nelle Metafisica e nella Fisica, ha parole di disprezzo per tuche e automaton, per la casualità in genere, intesa come espressione di incertezza e ignoranza non degna del filosofo. Poiché confonde verità con certezza, il lacanismo di scuola afferma che la scienza fuorclude la verità. La scienza non fuorclude la verità, anzi eleva l'incertezza alla dignità di verità probabilistica.

Allora ripeto la domanda per gli psicanalisti:

Se non esistono fenomeni spontanei, la psicanalisi che fine fa?

Fa la fine della scienza. Svanisce. Forse per un'oscura percezione di questo destino Freud si affaticò a definire le cause psichiche - le pulsioni - che spiegassero tutti gli effetti psichici. La causa ci vuole, sembra dire Freud, per far esistere la nostra "nuova scienza".

Ebbene, chi frequente questo sito, sa che qui si batte un'altra strada, con minore testardaggine astrologica di chi a tutti i costi pretende di trovare una causa per tutti gli eventi psichici - il cosiddetto sovradeterminismo.

Qui ci si batte per una psicanalisi che non sia riconducibile allo schematismo della causa ed effetto. Vogliamo costruire una psicanalisi che conservi al suo interno una buona dose di imprevedibilità, di spontaneità e - perché no? - di umorismo. Sì, proprio così. Allora il principio di ragion sufficiente servirà a far ridere. "Perché mi dici che vai a Cracovia, perché io creda che vai a Leopoli, mentre vai veramente a Cracovia?"

In ultima analisi, vogliamo una psicanalisi infantile.

Infantile?

Sì, come i bambini che chiedono "perché". I bambini non chiedono "perché" perché vogliono sapere le cause delle cose. I bambini non vogliono conoscere. Non sono cognitivisti. Sanno già quel che c'è da sapere sul loro conto. I bambini chiedono "perché" per mettere alla prova l'adulto. Vogliono verificare se l'adulto li ascolta o fa solo finta di ascoltarli, se sa veramente quel che dice o se li sta ingannando.

Che è come dire:

"Vogliamo una psicanalisi scientifica che metta alla prova lo psicanalista".

La psicanalisi standardizzata delle istituzioni psicanalitiche, vuoi in termini edipici, vuoi in termini di scene sessuali infantili o di qualche altro archetipo, non ci basta più.

Chiediamo troppo?

Forse sì. Non chiediamo niente di meno che di indebolire la volontà di ignoranza individuale e collettiva. La nostra è anche un'opzione politica. Vogliamo indebolire la volontà di ignoranza tanto gradita al potere, perché così prossima alla volontà di asservimento. E prima di uscire dalla pagina, consiglio di dare una scorsa al saggio di De la Boétie sulla servitù volontaria. Qui intendo soprattutto la servitù volontaria dell'allievo psicanalista rispetto alla scuola in cui chiede di essere formato. Ho sviluppato l'argomento in una lezione tenuta all'Umanitaria di Milano il primo dicembre 2009 al corso tenuto da Giovanni Sias sulla "Cultura della Psicanalisi", la quale secondo me deve prevedere che si distingua chiaramente tra

Dottrina e scienza,

come tra scienza antica (scire per causas) e moderna (scire per theoremata), per collocare esattamente il fenomeno della resistenza alla scienza, quindi alla psicanalisi, nel contesto culturale vigente.

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